E’ molto difficile parlare di precarietà seriamente all’interno dei media. Il motivo è semplice: chi si trova a scrivere di questo argomento, è precario ed inserito nella macchina. Quando anche San Precario ha fatto breccia all’interno del mondo dell’editoria, uno fra tutti il progetto di City of Gods (un’informazione sofisticata, ma popolare, questo si diceva mentre si costruiva il timone del primo numero), si cercava di scrivere insieme a quei giornalisti che lavoravano all’interno delle testate precarizzatrici. Quando saltellavo nel fiume della Mayday con i materiali da distribuire, una giornalista di Radio Popolare mi voleva intervistare per raccontare la mia “storia precaria”: io accettai e prima di iniziare le chiesi (a microfono spento) “ma tu sei precaria?” e lei mi rispose di sì, ma che stava bene in radio, c’era un bell’ambiente e sentiva che stava imparando tanto. Quando l’altra sera La7 stava girando un collegamento esterno alla trasmissione e voleva anche la voce dei precari, una delle persone che lavoravano lì, ci ha incitati dicendo “forza ragazzi, andate avanti così, anch’io sono precaria!”. Quando l’altro giorno sono andata a fare un colloquio di lavoro nel “più importante quotidiano d’Italia”, le uniche cose di cui non si è parlato sono la tipologia di contratto e la sua durata, considerate informazioni secondarie quando si cerca qualcuno per un lavoro (questo è il problema e non la flessibilità tanto evocata). Uno dei problemi più grossi della precarietà, sono i precari stessi: troppo ricattati per avere il coraggio di reagire. Troppo bisognosi dei due denari di reddito che ricevono, per uscire allo scoperto. Troppo illusi ancora oggi, che la precarietà sia il primo step nell’ingresso del mondo del lavoro – una specie di apprendistato – per evitare di vedere che ormai è diventata strutturale.
Sono due giorni che leggiucchio questo post pubblicato sul blog del gruppo di lavoro Lsdi (Libertà di stampa, diritto all’informazione). Dopo la fase “immedesimazione” e de core, è subentrata quella del paese vecchio e stantio che viene raccontato da giornalisti (che avranno grande esperienza per carità), che sono vecchi e quindi vedono la realtà in un certo modo, poi è arrivata la fase leggiamo fra le righe. Per iscriversi all’ordine dei giornalisti al momento o hai fatto la scuola di giornalismo (e questo è un tasto dolentissimo che non tocco, ma che aprirebbe una voragine) oppure presenti un certo numero di articoli firmati e retribuiti (al minimo sindacale) nell’arco di 18 mesi: chi poi ti certifica la documentazione è il direttore della testata. Una volta entrato nell’ordine, ti devi iscrivere alla cassa di previdenza (l’inpgi, che è a sua volta suddivisa in due tronconi e anche qui si potrebbe parlare ore di ingiuste suddivisioni) e versare i contributi in base ai tuoi guadagni. Bene: se aumentano gli iscritti all’ordine e non quelli all’inpgi, allora è evidente che qualcosa non quadra, no? I motivi più facili che mi vengono in mente sono due (entrambi fanno parte della mia personale esperienza): 1. lavori in nero, 2. guadagni talmente poco che il contributo minimo all’inpgi è superiore ai tuoi introiti di lavoro.