Non ho ancora scritto nulla della Mayday di quest’anno, stavo anche per saltare ormai più per pigrizia che per altro. Ma sul desktop la cartella mayday009 mi guarda ogni volta che inizio a fare qualcosa. L’attenzione si è rivolta più ai comunicati che alla realtà nel bene e nel male. In ogni caso a breve si farà qualcosa di concreto e vediamo se ci sarà la volontà da parte degli attivisti/e da tastiera di avviare un percorso o meno.
Quando ripenso al primo maggio, mi passano davanti agli occhi molti momenti, ne scelgo uno: una giornalista mi stava intervistando, c’era un casino pazzesco e allora le ho proposto di entrare in un ristorante giapponese con la serranda mezza abbassata. Alla fine abbiamo convinto le giappe del ristorante e farci stare dentro per parlare della precarietà, nello specifico, della mia precarietà. A microfono spento, ma la tentazione di farlo durante la diretta è stata forte, le ho chiesto quale fosse il suo contratto: bene, precaria senza molte prospettive al momento. Ecco, alla Mayday si porta in strada la precarietà, il primo maggio è la festa dei lavovatori, la Mayday è la festa dei precari e delle precarie.
Ma cosa si fa alla Mayday?
Il Santo si prepara…
Alla Mayday si fanno gli striscioni, si racconta, si va all’acquila, si porta il verde…
Il santo si posisiziona e non si dimentica, si comunica dal carro…
Si distribuisce City of Gods, playground si presenta, serpica naro si muove, si fa no oil…
Si ricerca il futuro…
Si fa politica.