Finanziamenti pubblici, la difesa sbagliata

Non voglio entrare nel dibattito sulla correttezza o meno dei finanziamenti pubblici all’editoria. Ci sono motivazioni giuste sul perché ci debba essere e altre che giustamente la vorrebbero far sparire per come funziona. Detto questo, i punti che Stefano Menichini (direttore di Europa Quotidiano) mette in luce per difenderla, li trovo fuori tempo. Vive in un altro pianeta, come tanti altri, ma deve aver lasciato, come tanti altri, il suo avatar molto attivo sulla Terra. Ho letto questo suo post sul Post .

Non mi interessa la discussione particolare sul Foglio: leggo e aspetto che si entri nel merito dei contributi all’editoria. Bene. Si analizza la realtà.

“Il paradosso è quasi ovunque lo stesso. Più o meno condivisibile che sia, la produzione intellettuale e giornalistica di molte di queste testate è riconosciuta, circola, rimbalza, crea opinione e contrasto. Insomma, funziona. Ma non remunera.”

Effettivamente è così, Cosa vogliamo fare? Non si torna indietro nel tempo.

“Quelli che per leggere sono disposti a recarsi in edicola e spendere sono pochi, mentre la stragrande maggioranza di quelli che usufruiscono dei contenuti (magari di qualità, elaborati da strutture redazionali regolari dunque onerose per quanto leggere) lo fa gratis sulla rete, e ormai ritengono la gratuità un diritto acquisito. Pur di averla garantita – si trattasse anche solo di spendere un euro – sono disposti a scambiarla con meno qualità, con contenuti più improvvisati, meno professionali, tanto il consumo è rapido e l’offerta pressoché illimitata.”

Continua il lamento e la “colpa”  di questa situazione viene a poco a poco delineata: 
1. la rete che è gratuita e cattiva (ci sono importanti testate – non italiane ovviamente – che sperimentano altre vie facendo dei contenuti gratis e altri a pagamento, sperimentano, ci provano, mentre continuano a difendere il valore delle loro edizioni cartacee. Oltre a chiacchierare provano quantomeno a fare qualcosa arricchendo i dibattiti sul domani con delle basi reali). Demonizzare il web non serve a nulla. Chi scrive meglio e fa contenuti originali primeggia, è così. In ogni caso o ti confronti con la produone web o sei destinato a morire.
2. la gratuità è ritenuto un diritto acquisito. Dov’è il problema? io ad esempio cerco la qualità e se è gratis è meglio. E’ normale ed è reale. Il punto non è sul gratis o a pagamento, ma sulla qualità di quello che scrivi.
3. il consumo è rapido. La scoperta dell’acqua calda: vale per tutto, anche i contratti sono rapidissimi: durano anche pochi giorni (quando li fanno), il mio ultimo ha avuto durata mensile. la nostra società è basata sulla velocità di adattamento. a me non piace, non mi piace il modello che abbiamo sposato. Bene, e il problema è quando si riversa sulla produzione di news?

“Non credo che la massa dei moralizzatori con i loro opinion leader se ne renda conto, ma la campagna contro i contributi pubblici all’editoria politica, cooperativa e di partito è il frutto più avvelenato – a me talvolta pare perfino l’unico – di quell’odioso neoliberismo selvaggio che in altri campi porta le medesime persone a sfilare indignate nelle piazze.”

Arrivata a questo punto, ho avuto una seria difficoltà el riuscire ad arrivare alla fine dell’articolo: il frutto più avvelenato del neoliberismo è la campagna contro i contributi pubblicici all’editoria politica? E’ aberrante una posizione di questo tipo. possiamo dre che è una delle tate conseguenze del neoliberismo. Ma andare oltre è assurdo.

“«Se non sai vivere nel mercato, è giusto che tu muoia» è la frase che mi sento rivolgere sempre, da gente che non si permetterebbe mai di parlare così a un minatore del Sulcis, a un metalmeccanico di Termini Imerese, a un panettiere di Milano, a un orchestrale dell’Opera di Roma, a un attore del Valle. Siamo in tanti fuori dal mercato, forse ci siamo tutti, voglio dire tutti gli italiani: vogliamo morire abbracciati? Può disprezzare tanto il valore della produzione intellettuale, giudicandola non meritevole di tutela né di sostegno, chi magari in altra sede si straccia le vesti per il degrado culturale del paese (sempre colpa di qualcun altro)? E dove possono trovare spazio i precari da tre euro al pezzo, formarsi nuove professionalità, competenze e intelligenze, se su piazza rimangono solo i colossi? Si fa l’esempio – notevole ma peculiare – del Fatto, che è nato e prospera solo sulle proprie forze. Ma dal direttore in giù, quasi tutti coloro che ne fanno il successo sono cresciuti dentro piccola, grande o grandissima editoria sovvenzionata.”

Certo che fra un minatore e un giornale, una persona (istintivamente) sceglie di salvare la vita del minatore e non del giornale. Pensa che la stessa motivazione del “devi morire se non sai vivere nel mercato” la rivolgono anche ai precari che evidentemente non sono abbastanza bravi o flessibili per meritare un posto di lavoro stabile.  In ogni caso sono d’accordo che la soluzione non è morire tutti abbracciati. Però sono inorridita quando leggo che con la chiusura di queste testate i precari da 3 euro a pezzo perderanno il lavoro. Io ho un’altra prospettiva: pagare 3 euro a pezzo è il problema su cui discutere e non mantenere i posti che ti fanno lavorare per 3 euro a pezzo. 
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